ermafrodita mentale

Non forzerò il mio pensiero in nessun dogma, non chiuderò il mio desiderio in nessuna pratica, non ingabbierò il mio amore in nessun contratto. Libera la mia vita corre senza paura di cadere.

Le mani e Maria

Mani di donna intrecciano
alle corde il corpo nudo
di Maria
sono morbide e affusolate
il sole del Mediterraneo
le ha colorate di bronzo
sono audaci e fiere e
detestano due cose:
il pene e la noia.
La volontà di lei raccolgono
ceduta per amore della
sottomissione.
La vista le oscurano
da lei si nascondono.
Maria ne è divenuta
schiava.

La Padrona delle mani
soffia insulti indecenti
alle orecchie di Maria
che giace immobile
al centro del palco,
e sussurra: «ti prego»,
la sua bocca non è stata ancora bendata,
«nella pozzanghera del desiderio bruciami,
fa ribollire i miei fiumi e vibrare come un’onda impazzita.»
Adesso non può più parlare
i suoi gemiti si odono appena
nell’aria satura di profumo
di vulva.

Le labbra della Padrona lambiscono
di saliva alla menta
quelle della schiava
e ne attingono la lingua
che succhiano
con dolcezza e vigore.
Il faro del palco illumina
i due corpi, quello privo di potere
e quello custode della volontà ceduta
che ardono tra le fiamme
d’amore.

Le mani ritornano in scena intingendo
le dita nel lago salato di Maria
dopo che la bocca ne ha assaporato
il gusto
è caldo, dolce, pungente il lago
che ormai ha straripato gli argini
bagnando le cosce e il pavimento.
Le dita entrano ed escono dall’acqua
tuffandosi sempre più in profondità,
Maria trema come un ramoscello
esposto ai venti autunnali.
Dal suo lago un’onda si s’innalza
e travolge l’addome della Padrona
che le libera la bocca
per godere del suo canto
prossimo all’estasi.

precarietà affettiva

non voglio più essere una fotografia
appesa su una parete che cambia colore
un’estemporanea che si materializza
nei fine settimana per poi dissolversi
in un autobus diretto in aeroporto
tantomeno una donna “emancipata”
che insegue il suo lavoro in un tailleur
troppo scuro per la sua verve

«abbiamo lottato per la liberazione e seppur emancipazione debba essere, che lo sia dal lavoro non dagli affetti.»

sono stufa di essere un numero
sul tuo display che ogni tanto si illumina
di vivere i miei affetti per corrispondenza elettronica
e messaggistica istantanea
di affidare le mie gioie e tristezze
a interminabili conversazioni su skype

io non ne posso più degli amori 2.0!
dov’è la consistenza? la materia? la carne?

oggi sono qui, domani altrove, dopodomani chissà…
e voi non siete con me
io non mi sento sola
io lo sono
rincorro i nostri ricordi fino al prossimo incontro
a furia di correre mi è venuto il fiatone
ho il respiro affannato e mi fa male il fianco sinistro
e vorrei bruciare tutti i devices che posseggo
perché è con voi che vorrei interagire piuttosto
che con loro
eh no! non voglio mai più fare sexting!
voglio fare l’amore

per favore, ditemi che questo è solo un incubo
che tutto sta per finire
mi sveglierò tra poco
le mie amiche e i miei amici saranno qui
il ragazzo che amo anche
il mio cane mi darà il buongiorno
leccandomi il viso

vi prego, svegliatemi!

fuocoammare

lei indossa occhi paludi
che mi risucchiano
nel turbine della
passione che crea
non distrugge

distolgo lo sguardo
mi sento nuda
nonostante il mio corpo
sia coperto da strati di tessuti
sintetici ed epiteliali
le mie difese crollano
la maschera come trucco sotto la doccia
cola

«perché tutto questo dolore? a te sembra giusto? a me no. io mi devo difendere.» 1

quando lei cinge le sue braccia
alla mia vita
l’elettricità mi attraversa
e come vento mi scuote
sono un ramo fragile
al suo cospetto
ma come posso esserlo io che non ho più lacrime
da intestare?

nei suoi occhi
scorgo l’abisso,
di tutte le dimensioni la profondità
è quella che più temo.
eppure, non ho più voglia
di mantenermi in superficie
di galleggiare nello stagno dell’iride
di saltare di occhio in occhio fugacemente.
la mia pancia ha fame di un amore
colore del fuoco
sapore del mare.

l’odore di sole che nella sua pelle respiro
profuma anche le mie inquietudini
i germogli, forse… stanno per sbocciare.
capelli zafferano incorniciano
due finestrelle sull’infinito aperte
dalle quali vorrei
non sentirmi più in dovere
di proteggermi

  1. citazione tratta dal film Bianca (1982) di Nanni Moretti.

 

carillon onirico

Sollevai lo sguardo, un tappeto di stelle mi sovrastava e vorticavano le stelle.
Vorticavano nei miei occhi allucinati tutte le stelle del firmamento. Quel
turbine di luci mi fece provare la vertigine. Le mie gambe tremavano, i miei piedi
tremavano, le mie dita tremavano e i brividi impazienti percorrevano la mia schiena
in lungo e in largo. I miei capelli svolazzavano al ritmo della brezza estiva e si
allungavano nel cielo per catturare le stelle più belle. Decorai la mia chioma
con le luci più sgargianti del firmamento e brillavano i miei
capelli color d’argento.

Il cielo non gradì la mia rapina e cominciò ad abbassarsi
impetuosamente, sempre di più fino a schiacciarmi mentre il turbine stellare vorticava
nei miei occhi visionari. Mi stesi per terra. Il fango ricoprì il mio corpo, ribolliva la
terra, ribolliva e gocciolava dalla mia fronte: il terrore. Mi guardai attorno: gli alberi
parevano vivi, mi osservavano e ridevano incuranti del cielo che incombeva su di noi
come un’incudine per schiacciarci, stritolarci, sfracellarci. Sentivo già le mie ossa
scricchiolare sotto il suo peso. S’abbassava con prepotenza il cielo e il
mio corpo sudava disperazione. Presi una delle stelle che avevo intrecciato tra i
capelli e la portai alla bocca, la divorai. Il fango bollente mi ricopriva e mi avvolgeva
e mi stringeva e prese a strangolarmi mentre il cielo nero penetrava nei miei occhi
atterriti.

La luce della stella mangiata si diffondeva velocemente nel mio corpo:
illuminò i miei piedi, la mie gambe, la mie cosce, il mio bacino, l’addome, le braccia,
il petto; la luce risalì per la gola, irradiando le labbra, le guance, il naso, gli occhi, la
fronte. Vibravo di luce cosmica. Il cielo s’allontanò di colpo riprendo il suo posto
nell’infinito dell’universo e la palude si seccò d’un tratto. Osservai le mie mani: erano
color oro, le mie braccia anche. Il mio corpo emanava delle radiazioni luminose così
intense che riuscivo a malapena a guardarmi senza dover chiudere gli occhi. Mi alzai.
Gli alberi presero a danzare attorno a me in cerchio, le loro radici fuoriuscivano e si
infilavano di nuovo nella terra viva. Sentivo una felicità soffusa crescere dentro il mio
cuore. Danzavo focosamente al ritmo dell’incedere incalzante degli alberi
quando questi si trasformarono in amazzoni.

Il sole squarciò il cielo per tingerlo di
porpora, i fiumi divennero rossi e le amazzoni intonarono canti d’amore. Mi
circondarono, una di loro mi si avvicinò danzando, mi tendeva un pugnale e
un’armatura. S’offrì di tagliarmi il seno destro, colava il sangue dal mio petto mutilato
ma il mio corpo continuava a risplendere. Lasciai il centro del cerchio e mi disposi
acconto a loro. Ballavamo, i tamburi risuonavano coraggiosi nell’aria che sapeva di
donna; le leonesse urlavano vendetta. La felicità colmava rigogliosa il mio petto
mutilato. Ero diventata una di loro e non avevo più nulla da temere.

Shibari

Intreccia con mani d’artista
alle corde il mio corpo
raccogli la volontà che
t’affido
oscurami la vista
il mondo oscurami
da me oscurati
soffia le tue voglie
alle orecchie mie impazienti
penetra la mia carne
coi tuoi occhi di grafite

nelle pozzanghera
del desiderio
bruciami
i fiumi della terra ribollono
dentro di me che vibro
vibro vibro
come un’onda impazzita

lambiscimi di saliva alla menta
scottati con la pelle mia ardente
attingi la mia lingua al pozzo della bocca
abbeverati di me
chiarore lunare illumina
questo corpo schiavo
eucalipto ti prego donami freschezza
io brucio
intingi le dita nel lago di sale
e divorami mentre proferisco
il canto dell’estasi

Sacrilegio

ricordi di spada
perforano le fessure
dell’anima
torrenti di sale
i guanciali del volto
attraversano
d’agonia irrigandoli

annaspa annaspa
annaspa
il mio corpo tra le
rovine del tempio

Gioventù
tra le macerie
della profanazione
sepolta
l’epicentro del terremoto
si trova dentro di me e
non ha mai smesso di
scuotermi
calpestatemi pure
percorrete il mio corpo
in lungo e in largo
scavatevi il tunnel dentro di me
e abbandonatelo subito dopo
Agonia aspettami
non te ne andare anche tu

il mio corpo violato
fa acqua da tutte le parti
invadetemi ancora
prima che anneghi

senza titolo

Nulla di me salverei
Nulla
di questo corpo dalla privazione
d’amore storpiato
non salverei nemmeno
una parte remota

piango la rabbia che
covo pazientemente come
un fulmaro il suo uovo
la rabbia è il mio pulcino che
cresce cresce e mi divora
mi spolpa viva
mordicchia le mie ossa
mordicchia
come un cane
affamato
sono il cibo della mia rabbia
divorata, spolpata, sbranata
da lei consumata
di me sono rimaste le ossa che
i randagi non hanno voluto
non bastano a formare uno
scheletro

la sanità è un dovere sociale
lessi quando avevo ancora gli occhi
ma io non devo
non devo non devo
non devo

la sanità è un vestito troppo
stretto per i miei fianchi grassi
di correre appresso ai tram
ai treni agli aerei agli orari
alle scadenze alla morte
non ne ho più voglia
io non devo non devo
non devo
mi sottraggo alla vita
diminuisco
rimpicciolisco
lontana lontana
lontananza accoglimi
oblio non serve aprire la porta
sono talmente piccola che
ci striscio sotto

nella mia ventiquattrore
solo vibratori e costumi da bagno
anche in inverno
del margine ho fatto il mio centro
sono una nota a piè di pagina che
quasi nessuno nota e cancellatemi pure
da lì, ve ne prego.

Violenza di genere

A volte
quando la solitudine s’adagia
sulle spalle curve della notte
l’incubo riaffiora e il trucco mi cola
sento i suoi passi pesanti avvicinarsi
rimbombano nella mia testa
i suoi passi come
una maledizione
cerco conforto
nell’acqua e
nel respiro
invano
i suoi passi sono ancora lì
aggrappati alla mia
testa pazza

Mi strofino gli occhi stanchi
e provo a distrarmi
penso al tramonto di qualche ora fa
penso alla donna che amo e mi dà forza
penso alla vita che pulsa dentro di me
e tutto è vano

i suoi passi diventano una marcia incalzante
le urla di un uomo posseduto
da una rabbia atavica
mi trafiggono come
pugnalate d’odio
sono state le sue parole a bruciarmi
più che le botte
il dolore fisico lo sopportavo
ma le sue parole come bombe
mi scoppiavano addosso

di me non è rimasto che
un corpo ustionato

A volte
quando la solitudine s’adagia
sulle spalle curve della notte
di nascosto dal mondo
mi lecco le ustioni e
piango
come un animale ferito

Attraversamenti

 Che suono produce l’infrangersi delle onde
questa notte?
Quale canto si leva dagli abissi del mare
questa notte?
È calmo, docile, allegro, spumoso,
inquieto, nervoso, rabbioso, furente
il mare?

Caronte trasporta i dannati della terra
da una sponda all’altra del Mediterraneo
su imbarcazioni dismesse

una bimba piange, forse ha freddo
oppure ha fame, o forse ha paura
attraversare il mare di notte su
scialuppe affollate di sfollati deve
fare molta paura così come sapere che
la propria vita dipende da un viaggio
dal destino incerto
un’altra voce si leva dalla barca
è sua madre Penda che canta, la consola
le dà forza, si dà forza

Per fortuna il mare è calmo questa notte
ma è nero, nero come gli incubi più tetri.
Il pianto di Sheba non si calma, il suo pianto
s’eleva nell’aria e si diffonde nelle tenebre
per svegliare le coscienze assuefatte, ovattate
le coscienze che ancora non hanno venduto la
loro anima al diavolo.

Il suo pianto non è un grido d’aiuto
il suo pianto è un grido di resistenza
lei vuole vivere, lei vuole esistere
lei insegue la vita
e né questo mare insicuro
né le nostre astrazioni giuridiche
chiamate leggi, la fermeranno
lei avanza tremante al collo della madre e
piange la vita che pretende.

Io donna, tu lesbica, noi S&M

La vidi per la prima volta al corso di théorie du genre a Paris 8. I suoi capelli erano castani e spettinati, gli occhi azzurri coperti da lenti d’altri tempi, le labbra carnose e rosse come le ciliegie che a maggio si raccolgono in puglia. Vestiva come una zingara, alternava jeans e magliette consumate ad abiti a fiori dalle tinte sgargianti, un enorme capello nero copriva il suo viso dai raggi del sole perché, come scoprii più tardi, era allergica al sole. Non era bella nel senso classico del termine e nemmeno femminile, d’altronde la femminilità costruita mi fa venire l’orticaria. Era una lesbica alla Wittig maniera, una di quelle donne che da tempo si sono sottratte al mercato dell’eterosessualità; il suo lesbismo più che un innato desiderio d’attrazione verso le donne, era motivato da una forte consapevolezza politica: a far da schiava per l’uomo di turno preferiva il separatismo, ed era una separatista a tutti gli effetti.

Un giorno a inizio lezione invitò tutta la classe, ragazze e ragazzi di diversa età, nazionalità e colore della pelle – benedetta università della banlieu – a un presidio per la Palestina, fu allora che la notai. Il mercoledì successivo la prof non si presentò, lei propose di discutere quello che avevamo fatto fino ad allora, così ci ritrovammo a parlare della costruzione del genere secondo Judith Bulter. Io la guardavo e pensavo che volevo, dovevo conoscerla, ammiravo quella voglia di fare e adoravo la maniera in cui teneva il mio sguardo stretto tra i suoi occhi. Mi sembrava fiera, coraggiosa e sensibile, tre qualità che mi fanno impazzire. Terminato il dibattito, andammo a bere del vino in un bar nella piazza della basilica a Sant Denis.  I due ragazzi che erano con noi in aula andarono via, forse intimoriti da tanto ardore femminista e separatista. Eravamo sei donne: due italiane, una greca, una brasiliana, una inglese e una francese, tutte transfemministe. A Saint Denis i bar sono frequentati quasi esclusivamente da uomini, è un enclave straniera in territorio francese, i contrasti con Parigi sono evidenti e stridono forte. Scoprì che studiava filosofia, che da lì a poco sarebbe partita per il Messico per scrivere il memoire su qualcosa inerente alle donne delle comunità zapatiste. Insomma, c’erano tutti i presupposti per avviare una conoscenza proficua. Ebbi la sensazione che il mio interesse fosse ricambiato. In metro mi prese gli occhiali, li guardò e mi chiese di quale marca fossero e dato che io, anche se faccio la stronza, sono una romanticona dal cuore di pasta frolla, pensai che si trattasse di una scusa per guardare i miei occhi. Ancora oggi non conosco la verità; certe cose è bene che rimangano un mistero, del resto a me piace pensarla così. Le fermate arrivano sempre troppo presto quando sei in compagnia di una persona che ti piace, ci separammo.

Per un mesetto non riuscimmo a incontrarci a lezione, quando lei c’era io non c’ero e viceversa. Fu la manifestazione del LOTTO marzo a Belleville a ricongiungerci. La vidi da lontano, la rincorsi e le stetti a fianco per una buona mezzora; le raccontai delle cose che scrivevo, del rapporto travagliato e violento con mio padre, della mia sessualità, le dissi che mi piacevano anche con gli uomini e lei… mi fulminò con lo sguardo. Per un attimo pensai che avevo toppato alla grande, ma c’è una cosa che ho imparato e di cui vado fiera: mai vergognarsi di essere quello che si è, nemmeno davanti alle compagne/i. Perché dovrei vergognarmi di essere pansessuale, per me il desiderio è polimorfo, ad attrarmi non è il pene o la vagina ma la persona nella sua sconfinata totalità; però quell’occhiataccia mi rimise in riga come gli schiaffi di mio padre quando dicevo le parolacce da bambina. L’autorevolezza della fierezza lesbica separatista rimproverava la mia promiscuità sessuale e il mio lassismo ideologico. Io non sono lesbica, tantomeno wittigiana. Con la coda tra le gambe e un po’ incazzata raggiunsi le mie amiche; la manifestazione era troppo bella, colorata, multietnica, vivace, libertaria… non c’era spazio per il broncio. Il cielo di Parigi era stranamente terso, un enorme sole cocente si stagliava orgoglioso al suo centro e ci irradiava di buonumore e allegria. Qualcuna la chiamò felicità.

Passai le settimane successive a desiderarla, a fantasticare su di lei, chissà com’era la sua stanza, le camere sono lo specchio dell’anima, come gli occhi; chissà che libri ospitava la sua libreria e che poster erano appesi sui suoi muri. Attendevo il mercoledì con ansia. Durante la pausa chiacchieravamo, ci annusavamo da lontano come due cagne che aspettano il momento giusto per divorarsi. Poi un giorno mi invitò a vedere un film a casa sua con altre compagne, cenammo e alla fine uscimmo; al film preferimmo il richiamo dell’alcool e della musica. Io mi scoprivo ai suoi occhi parola dopo parola e lei mi ascoltava attenta, poi mi chiedeva i dettagli e io glieli davo con generosità. Mi ritrovai per la prima volta in un gruppo di lesbiche internazionale e separatista, solo io e le brasiliane avevamo una visione meno settaria; tra conterranee ci si intende (per chi non lo sapesse considero il Brasile il mio paese adottivo). Mi ritrovai a frequentare solo donne e posti omosessuali, la cosa mi eccitava, era un’esperienza nuova per me e con loro mi trovavo bene.

La sera più divertente la passammo a casa di Lilly, una ragazza di Rio che viveva a Parigi nell’undicesimo arrondissement da diversi anni, faceva la giornalista sportiva. Cenammo, l’alcool finì troppo presto così io scesi a comprarne dell’altro, quando risalii le trovai in reggiseno a ballare reggaeton, una visione paradisiaca. C’era una tale energia nell’aria, il desiderio si diffondeva come profumo di rum all’arancia. Quella notte ci baciammo e per poco non ci sciogliemmo nella stradina lì accanto. Mi invitò a casa sua, accettai; su di giri ci dirigemmo verso il quartiere di Belleville. Pioveva. Arrivammo a casa zuppe di pioggia e desiderio. Entrò in bagno mentre io preparavo una tisana; al diavolo la tisana, la raggiunsi e facemmo sesso nella vasca mentre l’acqua bollente rinvigoriva i nostri corpi infreddoliti. La sua bocca sapeva di mandorle, il suo corpo era bianco come la neve, i suoi peli rossi la coprivano come un mantello. Sfinite trovammo ristoro nel letto l’una nelle braccia dell’altra. Adoro dormire in compagnia, c’è qualcosa di magico nel condividere il sonno con la persona che ti piace. Credo di averle chiesto di raccontarmi qualcosa prima di dormire, amo addormentarmi mentre ascolto una storia. Le parole mi cullano nel più bello dei sogni, dove un’altra avventura comincerà.

Il giorno seguente facemmo colazione nel parco di Buttes-Chaumont, il più selvaggio parco di Parigi; altro che quei fiori all’occhiello per i turisti come les Jardins du luxembourg o les Jardins des tuileries. A me della colazione non importava nulla, era lei che volevo. Quella giornata fu speciale; ci arrampicammo su un albero e rimanemmo lì per ore a raccontarci, baciarci, toccarci, desiderarci. Verso sera la fame ci riportò sulla terra dei bisogni e delle necessità, comprammo una pizza alle verdure che mangiammo sul gradino di una casa. Fu allora che le chiesi di dominarmi. Le dissi che il BDSM mi affascinava, provai a spiegarle il piacere che provo nell’essere umiliata, immobilizzata, sottomessa. Lei mi guardava come si guarda un animaletto mai visto prima di allora, era incuriosita ma allo stesso tempo spaventata e mi confessò di non aver mai fatto nulla del genere, mi confessò anche di essere piuttosto inesperta sessualmente; ma a me dell’esperienza importa fino a un certo punto, è la fantasia quella che conta, se c’è quella tutto il resto si può apprendere.

Dopo qualche ora ero sul suo letto completamente immobilizzata, la mia bocca era coperta da nastro adesivo per pacchi, le mie mani legate al capezzale del letto e i miei piedi pure. Cominciò ad insultarmi nel suo francese parigino, più tardi scoprì che era cresciuta a Bastille in una bella casa borghese. Mi picchiò con una frusta arrangiata, sempre più forte fino a farmi mordere le labbra dal dolore. Ero completamente nuda e lei vestita. Le mugolai di versarmi la cera delle candele sparse per la stanza addosso, la sensazione che si prova è quella di coprire una parte infinitesimale del corpo con una minuscola coperta, il calore si sente solo su quella piccola parte su cui la cera cade e si posa. Mi vomitò addosso insulti pesanti come pietre, inizialmente le veniva da ridere, poi si calò perfettamente nella parte; ci prese addirittura gusto. Quando si stancò mi slegò, come una furia le saltai addosso.

Cominciai a leccarle le labbra dolcemente, la mia lingua si spostò sul collo, sull’orecchio destro, la girai e la spogliai, la mia lingua percorreva lentamente la sua schiena soffermandosi sui punti più erogeni mentre le sussurravo all’orecchio che l’avrei fatta godere come mai prima di allora. I miei piedi si strusciavano ai suoi, la mia mano destra s’insinuava nella sua vagina tropicale mentre la mia clitoride si strofinava sulle sue natiche. La sentivo gemere, Dio, che goduria, più gemeva e più mi eccitavo, più mi eccitavo e più volevo tenerla là sospesa tra il desiderio e l’appagamento. Ansimava come una gatta in calore. La voltai, la baciai con foga, le laccai la faccia, le sputai in bocca la mia voglia di lei; le sputai sui capezzoli, prima sul sinistro e poi sul destro, lentamente. La saliva colava come le mie gambe. Leccai quelle colline dal sapore di mirto, le mordicchiai, le accarezzai mentre la mia mano destra scendeva sul suo ventre disegnando circoli viziosi. Le massaggiai la clitoride mentre lei mi implorava di farla venire ma ero io questa volta ad avere in mano le redini del gioco. Posai le labbra sul suo monte di venere e scesi giù verso la valle dove trovai ristoro in lago di desiderio. Il mio indice si infilò coraggioso nel suo ano alla ricerca di un piacere più profondo, lei gemeva. Non potevo più aspettare, la baciai, la masturbai fino a farla venire, mi misi sopra di lei, mi strusciai  mentre la stringevo forte a me. Venni. La mia presa si sciolse presto in un abbraccio. Ci addormentammo così, l’una tra le braccia dell’altra.