La vidi per la prima volta al corso di théorie du genre a Paris 8. I suoi capelli erano castani e spettinati, gli occhi azzurri coperti da lenti d’altri tempi, le labbra carnose e rosse come le ciliegie che a maggio si raccolgono in puglia. Vestiva come una zingara, alternava jeans e magliette consumate ad abiti a fiori dalle tinte sgargianti, un enorme capello nero copriva il suo viso dai raggi del sole perché, come scoprii più tardi, era allergica al sole. Non era bella nel senso classico del termine e nemmeno femminile, d’altronde la femminilità costruita mi fa venire l’orticaria. Era una lesbica alla Wittig maniera, una di quelle donne che da tempo si sono sottratte al mercato dell’eterosessualità; il suo lesbismo più che un innato desiderio d’attrazione verso le donne, era motivato da una forte consapevolezza politica: a far da schiava per l’uomo di turno preferiva il separatismo, ed era una separatista a tutti gli effetti.
Un giorno a inizio lezione invitò tutta la classe, ragazze e ragazzi di diversa età, nazionalità e colore della pelle – benedetta università della banlieu – a un presidio per la Palestina, fu allora che la notai. Il mercoledì successivo la prof non si presentò, lei propose di discutere quello che avevamo fatto fino ad allora, così ci ritrovammo a parlare della costruzione del genere secondo Judith Bulter. Io la guardavo e pensavo che volevo, dovevo conoscerla, ammiravo quella voglia di fare e adoravo la maniera in cui teneva il mio sguardo stretto tra i suoi occhi. Mi sembrava fiera, coraggiosa e sensibile, tre qualità che mi fanno impazzire. Terminato il dibattito, andammo a bere del vino in un bar nella piazza della basilica a Sant Denis. I due ragazzi che erano con noi in aula andarono via, forse intimoriti da tanto ardore femminista e separatista. Eravamo sei donne: due italiane, una greca, una brasiliana, una inglese e una francese, tutte transfemministe. A Saint Denis i bar sono frequentati quasi esclusivamente da uomini, è un enclave straniera in territorio francese, i contrasti con Parigi sono evidenti e stridono forte. Scoprì che studiava filosofia, che da lì a poco sarebbe partita per il Messico per scrivere il memoire su qualcosa inerente alle donne delle comunità zapatiste. Insomma, c’erano tutti i presupposti per avviare una conoscenza proficua. Ebbi la sensazione che il mio interesse fosse ricambiato. In metro mi prese gli occhiali, li guardò e mi chiese di quale marca fossero e dato che io, anche se faccio la stronza, sono una romanticona dal cuore di pasta frolla, pensai che si trattasse di una scusa per guardare i miei occhi. Ancora oggi non conosco la verità; certe cose è bene che rimangano un mistero, del resto a me piace pensarla così. Le fermate arrivano sempre troppo presto quando sei in compagnia di una persona che ti piace, ci separammo.
Per un mesetto non riuscimmo a incontrarci a lezione, quando lei c’era io non c’ero e viceversa. Fu la manifestazione del LOTTO marzo a Belleville a ricongiungerci. La vidi da lontano, la rincorsi e le stetti a fianco per una buona mezzora; le raccontai delle cose che scrivevo, del rapporto travagliato e violento con mio padre, della mia sessualità, le dissi che mi piacevano anche con gli uomini e lei… mi fulminò con lo sguardo. Per un attimo pensai che avevo toppato alla grande, ma c’è una cosa che ho imparato e di cui vado fiera: mai vergognarsi di essere quello che si è, nemmeno davanti alle compagne/i. Perché dovrei vergognarmi di essere pansessuale, per me il desiderio è polimorfo, ad attrarmi non è il pene o la vagina ma la persona nella sua sconfinata totalità; però quell’occhiataccia mi rimise in riga come gli schiaffi di mio padre quando dicevo le parolacce da bambina. L’autorevolezza della fierezza lesbica separatista rimproverava la mia promiscuità sessuale e il mio lassismo ideologico. Io non sono lesbica, tantomeno wittigiana. Con la coda tra le gambe e un po’ incazzata raggiunsi le mie amiche; la manifestazione era troppo bella, colorata, multietnica, vivace, libertaria… non c’era spazio per il broncio. Il cielo di Parigi era stranamente terso, un enorme sole cocente si stagliava orgoglioso al suo centro e ci irradiava di buonumore e allegria. Qualcuna la chiamò felicità.
Passai le settimane successive a desiderarla, a fantasticare su di lei, chissà com’era la sua stanza, le camere sono lo specchio dell’anima, come gli occhi; chissà che libri ospitava la sua libreria e che poster erano appesi sui suoi muri. Attendevo il mercoledì con ansia. Durante la pausa chiacchieravamo, ci annusavamo da lontano come due cagne che aspettano il momento giusto per divorarsi. Poi un giorno mi invitò a vedere un film a casa sua con altre compagne, cenammo e alla fine uscimmo; al film preferimmo il richiamo dell’alcool e della musica. Io mi scoprivo ai suoi occhi parola dopo parola e lei mi ascoltava attenta, poi mi chiedeva i dettagli e io glieli davo con generosità. Mi ritrovai per la prima volta in un gruppo di lesbiche internazionale e separatista, solo io e le brasiliane avevamo una visione meno settaria; tra conterranee ci si intende (per chi non lo sapesse considero il Brasile il mio paese adottivo). Mi ritrovai a frequentare solo donne e posti omosessuali, la cosa mi eccitava, era un’esperienza nuova per me e con loro mi trovavo bene.
La sera più divertente la passammo a casa di Lilly, una ragazza di Rio che viveva a Parigi nell’undicesimo arrondissement da diversi anni, faceva la giornalista sportiva. Cenammo, l’alcool finì troppo presto così io scesi a comprarne dell’altro, quando risalii le trovai in reggiseno a ballare reggaeton, una visione paradisiaca. C’era una tale energia nell’aria, il desiderio si diffondeva come profumo di rum all’arancia. Quella notte ci baciammo e per poco non ci sciogliemmo nella stradina lì accanto. Mi invitò a casa sua, accettai; su di giri ci dirigemmo verso il quartiere di Belleville. Pioveva. Arrivammo a casa zuppe di pioggia e desiderio. Entrò in bagno mentre io preparavo una tisana; al diavolo la tisana, la raggiunsi e facemmo sesso nella vasca mentre l’acqua bollente rinvigoriva i nostri corpi infreddoliti. La sua bocca sapeva di mandorle, il suo corpo era bianco come la neve, i suoi peli rossi la coprivano come un mantello. Sfinite trovammo ristoro nel letto l’una nelle braccia dell’altra. Adoro dormire in compagnia, c’è qualcosa di magico nel condividere il sonno con la persona che ti piace. Credo di averle chiesto di raccontarmi qualcosa prima di dormire, amo addormentarmi mentre ascolto una storia. Le parole mi cullano nel più bello dei sogni, dove un’altra avventura comincerà.
Il giorno seguente facemmo colazione nel parco di Buttes-Chaumont, il più selvaggio parco di Parigi; altro che quei fiori all’occhiello per i turisti come les Jardins du luxembourg o les Jardins des tuileries. A me della colazione non importava nulla, era lei che volevo. Quella giornata fu speciale; ci arrampicammo su un albero e rimanemmo lì per ore a raccontarci, baciarci, toccarci, desiderarci. Verso sera la fame ci riportò sulla terra dei bisogni e delle necessità, comprammo una pizza alle verdure che mangiammo sul gradino di una casa. Fu allora che le chiesi di dominarmi. Le dissi che il BDSM mi affascinava, provai a spiegarle il piacere che provo nell’essere umiliata, immobilizzata, sottomessa. Lei mi guardava come si guarda un animaletto mai visto prima di allora, era incuriosita ma allo stesso tempo spaventata e mi confessò di non aver mai fatto nulla del genere, mi confessò anche di essere piuttosto inesperta sessualmente; ma a me dell’esperienza importa fino a un certo punto, è la fantasia quella che conta, se c’è quella tutto il resto si può apprendere.
Dopo qualche ora ero sul suo letto completamente immobilizzata, la mia bocca era coperta da nastro adesivo per pacchi, le mie mani legate al capezzale del letto e i miei piedi pure. Cominciò ad insultarmi nel suo francese parigino, più tardi scoprì che era cresciuta a Bastille in una bella casa borghese. Mi picchiò con una frusta arrangiata, sempre più forte fino a farmi mordere le labbra dal dolore. Ero completamente nuda e lei vestita. Le mugolai di versarmi la cera delle candele sparse per la stanza addosso, la sensazione che si prova è quella di coprire una parte infinitesimale del corpo con una minuscola coperta, il calore si sente solo su quella piccola parte su cui la cera cade e si posa. Mi vomitò addosso insulti pesanti come pietre, inizialmente le veniva da ridere, poi si calò perfettamente nella parte; ci prese addirittura gusto. Quando si stancò mi slegò, come una furia le saltai addosso.
Cominciai a leccarle le labbra dolcemente, la mia lingua si spostò sul collo, sull’orecchio destro, la girai e la spogliai, la mia lingua percorreva lentamente la sua schiena soffermandosi sui punti più erogeni mentre le sussurravo all’orecchio che l’avrei fatta godere come mai prima di allora. I miei piedi si strusciavano ai suoi, la mia mano destra s’insinuava nella sua vagina tropicale mentre la mia clitoride si strofinava sulle sue natiche. La sentivo gemere, Dio, che goduria, più gemeva e più mi eccitavo, più mi eccitavo e più volevo tenerla là sospesa tra il desiderio e l’appagamento. Ansimava come una gatta in calore. La voltai, la baciai con foga, le laccai la faccia, le sputai in bocca la mia voglia di lei; le sputai sui capezzoli, prima sul sinistro e poi sul destro, lentamente. La saliva colava come le mie gambe. Leccai quelle colline dal sapore di mirto, le mordicchiai, le accarezzai mentre la mia mano destra scendeva sul suo ventre disegnando circoli viziosi. Le massaggiai la clitoride mentre lei mi implorava di farla venire ma ero io questa volta ad avere in mano le redini del gioco. Posai le labbra sul suo monte di venere e scesi giù verso la valle dove trovai ristoro in lago di desiderio. Il mio indice si infilò coraggioso nel suo ano alla ricerca di un piacere più profondo, lei gemeva. Non potevo più aspettare, la baciai, la masturbai fino a farla venire, mi misi sopra di lei, mi strusciai mentre la stringevo forte a me. Venni. La mia presa si sciolse presto in un abbraccio. Ci addormentammo così, l’una tra le braccia dell’altra.